Recensioni dal web:
Anni Novanta. Da qualche parte, in autostrada, su un autobus, un piccolo me tira fuori dallo zaino un mangianastri verde, con lo sportellino frontale semitrasparente. Preme il tasto Play. Le batterie non sono cariche al massimo e la pellicola ci mette un attimo prima di cominciare a girare al giusto ritmo. Nelle cuffie arriva un fruscio, un rumore bianco che crea aspettativa. Poi Freddie Mercury comincia a cantare: “It’s a kind of magic”, e il piccolo me inizia a far schioccare le dita a tempo. Il lato A del secondo Greatest Hits dei Queen comincia a svolgersi; non posso neppure azzardarmi a stimare il numero di volte in cui ho riavvolto quel nastro, anni e anni fa.
Ogni persona seduta con me al cinema, accorsa a vedere Bohemian Rhapsody, il film biografico firmato da Bryan Singer incentrato sul leader della band britannica, probabilmente aveva un suo ricordo legato ai Queen e alla loro musica – che continua a saltare di generazione in generazione, refrattaria alla pensione. In mezzo a questo mare di storie, la pellicola (uscita nelle sale il 29 novembre) mette in discussione quali canoni un biopic musicale debba rispettare per essere considerato tale.
Bohemian Rhapsody tratta della vita di Freddie Mercury, partendo dagli anni degli studi universitari a Londra – quando già si era lasciato alle spalle il nome di battesimo Farrokh, ma ancora conservava il cognome Bulsara – fino alla metà degli anni ottanta. Singer lo fa affidandosi alla sceneggiatura di Anthony McCarten, autore già apprezzato e premiato per il suo contributo ad altre pellicole biografiche di successo (La teoria del tutto, L’ora più buia): il risultato è un mosaico, che attinge sì dalla storia dei Queen e del loro frontman, ma gioca con la cronologia degli eventi e piega ruoli, luoghi e situazioni, adattandoli secondo le necessità drammaturgiche... ... L articolo continua su igm.it